Mari Aperti

MARI APERTI  Autori Vari, a cura di Maikel Maryn e Andrea Marinucci Foa 293 pagine – Agosto 2020, distribuito su Amazon e Produzioni dal Basso…

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Manuali, la nostra prossima sfida

Cosa ci fa una coppia di scrittori di “genere” in un progetto di manualistica? E perché siamo così orgogliosi di aver partecipato alla prossima, imminente pubblicazione di questo manuale di diritto amministrativo? Sarebbe troppo lungo da spiegare in questo spazio… Ehi, un momento! Questo spazio è tutto nostro e decidiamo noi quanto dilungarci, quindi non tenete conto dell’ultima affermazione. Ve lo spieghiamo eccome!

Non molto tempo fa, stavamo parlando di manuali con Massimo Vaccaro, che insegna all’Ateneo diritto amministrativo (e diverse altre materie). Il “manuale” è uno strumento che nasce insieme e attorno all’insegnamento della materia. Ma dal momento in cui diventa “libro”, prende una strada tutta sua. Si evolve sì parallelamente al corso, ma non segue necessariamente la stessa direzione. Così, la manualistica nel tempo elabora e affina un suo linguaggio, fissa degli standard, lascia sedimentare delle abitudini che derivano in buona parte dalla generazione precedente dei manuali. Nel tempo le tendenze originarie spesso si accentuano, così ad esempio un linguaggio che all’inizio del Novecento è stato trasposto da quello dell’insegnante dell’aula ci appare oggi raffinato e, nel corso del tempo e dopo generazioni di manuali della stessa materia, invece di seguire l’evoluzione del linguaggio orale amplia i termini inusuali, aggiunge subordinate, diventa artificioso, ostico… Ma soprattutto si separa completamente dai meccanismi della formazione.

Perché allora non fermarsi un momento a riflettere e, invece di partire dall’ultima generazione di manuali, non tentare una nuova trasposizione della lezione moderna?

Nella nostra epoca, dove i dati sono reperibili con un click, la parte più importante della manualistica è quello che si può definire “il senso” della materia. Perché esistono queste regole? Da dove vengono? Come si innestano nella società e come si articolano nel quadro generale? Quale filosofia c’è dietro? Comprendere “il senso” equivale a impadronirsi della materia, ragionarci sopra. Da qui viene il nome della nostra collana, “ragioniamo insieme”, che non è solo un auspicio ma spiega benissimo ciò che ci siamo riproposti di fare.

Questa fase storica per l’editoria è molto interessante (anche nel senso dell’antica maledizione cinese, “ti auguro di vivere in tempi interessanti”) e quindi apre inevitabilmente uno spazio alla sperimentazione. Il digitale, il print on demand, la vendita online abbattono i costi dell’editoria, dando la possibilità alle piccole realtà di mettersi sul mercato con dei progetti che un tempo sarebbero stati troppo rischiosi. È il momento giusto per tirare fuori le idee nuove, non tanto per cercare di affermarle come aggiornamento del modello standard, ma per lasciare ai lettori e agli studenti uno spazio più ampio di pluralsimo, una scelta tra opere davvero diverse. Vogliamo farlo combattendo l’idea del modello unico e ottimale, di romanzo come di manuale, di trama come di linguaggio, che è tipica dell’epoca dell’oligopolio, dell’uniformità, del modello emergente e universalistico. È tempo di essere un po’ eretici, di ignorare la corrente principale e di lasciare alle grandi case la tradizione polverosa di manuali incomprensibili, contorti, mnemonici, che istillino repulsione per l’argomento nell’ottica che la conoscenza di una materia qualunque debba essere un’esercizio di sofferenza e che quindi sia riservata solo a pochi.

La sfida che abbiamo accolto è quella di curare dei manuali che possono essere letti senza soffrire, con un linguaggio ricco e articolato ma diretto, senza artifici e costruzione contorte che rendano i concetti inaccessibili, “linguaggio magico” per iniziati. “Diritto Amministrativo” rappresenta l’esordio dell’Ateneo come piccola casa editrice, della collana “ragioniamo insieme” che siamo orgogliosi di curare, di Massimo Vaccaro come autore di manuali  e del nostro modo di affrontare manuali e saggi, che non è “giusto” o “sbagliato”, ma che vuole aggiungere qualcosa al novero delle opportunità dei lettori.

 

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Servizi editoriali

Noi ci occupiamo di un settore molto penalizzato dalla crisi, l’innovazione. A questa parola, ormai tristemente desueta, abbiamo accostato “sostenibile”, per indicare che qualcosa si…

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Diario di viaggio, parte seconda

La cronaca semiseria di un autore alle prese con il viaggio di Darwin.

index_clip_image002Darwin e gli osti sudamericani è un pezzo di teatro. Non l’ho scritto io, l’ha scritto lui e io mi limito a tirarlo fuori dal suo libro e a farlo vedere.

Chi ha viaggiato in modo “avventuroso” lo sa già. Ci sono due comodità irrinunciabili quando vai alla ventura in zone già esplorate prima. La prima è la cartina. Quando ti perdi o sei in dubbio, c’è la carta geografica. Se parli il suo linguaggio te la cavi sempre. Il viaggiatore esperto non si riconosce dalle scarpe o dallo zaino. Si riconosce perché sa ripiegare la cartina al primo colpo.
La seconda è l’oste. Uso il termine “oste” come simbolo di tutta la famiglia estesa dei gestori di locali dove si mangia e si beve: ristoratori, trattori, tavernieri, locandieri. Quando hai viaggiato tutto il giorno, ti fanno male tutti i muscoli del corpo, persino le dita (con cui hai ripiegato la cartina cento volte), sei stanco morto e affamato come un coccodrillo tenuto a dieta vegan per una settimana. Arranchi con le ultime forze, vedi le case il lontananza e quando trovi l’oste sei salvo.

Ora, Darwin non è Indiana Jones. Gli scienziati del Beagle viaggiano con i servi al seguito. Ma quando vanno a cavallo e a piedi una giornata intera sono stanchi anche loro. Puzzano come caproni tibetani, gli fa male tutto e hanno fame. Si trascinano alla prima osteria. Hanno l’agilità di un bradipo, ma lo stomaco di una tigre dai denti a sciabola.

Darwin parla tanto degli osti e visto che non è uno che chiacchiera a caso, e che addirittura si ricorda a distanza di molti anni dove si mangia bene e quanto si spende, il suo incontro con la ristorazione sudamericana riveste per lui una certa importanza.

Gli osti sono la punta di diamante della civilizzazione. Sono sempre avanti. Quelli che incontra Darwin sono addirittura centocinquanta anni avanti. Guardano i valorosi scienziati e nobili esploratori di Sua Maestà e cosa vedono? Dei turisti. Un secolo e mezzo prima dell’industria del turismo! Darwin è sbalordito e divertito dagli osti. Si imbatte nel relativismo culturale, trattando con gli osti. Gli esploratori inglesi hanno fame, chiedono ripetutamente da mangiare, insistono. Quanto ci vorrà per la cena? L’oste si secca e risponde “la cena sarà pronta quando sarà pronta”. Questa frase resterà scolpita nella memoria di Darwin. Un inglese del 1831 non se la aspetta, si aspetta una giustificazione, una parola di scusa. Ma l’oste vede solo un turista, sta facendo il suo lavoro e il turista aspetta. “Se non volete aspettare, potete andare altrove”. E lì, i valenti esploratori alzano bandiera bianca.

E’ normale per noi. Ma immaginate la faccia di Darwin alle prese con la filosofia della ristorazione del ventesimo secolo, in un posto sperduto del Brasile. E’ teatro. Quando Darwin anziano lo scrive nell’autobiografia ancora gli viene da ridere.

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Diario di viaggio, parte prima.

La cronaca semiseria di un autore alle prese con il viaggio di Darwin.

BeagleDarwin è appena partito con il Beagle, io con il racconto. Sì, lui è qualche anno più indietro, ma ha una scadenza più lunga.
Il Beagle è un brigantino con dieci cannoni. Non li useranno mai, quei cannoni. Se li portano dietro giusto perché Larussa non affitta ancora i marò. E forse è meglio così.
Quando arriva a Capo Verde, il giovane Darwin, che è un inglese tipico, alza il sopracciglio come Spock e mormora “interessante”. Non si sbraccia per l’entusiasmo.
Poi però scrive. E quando scrive Darwin non ha più bisogno di fare l’inglese.
“Il paesaggio, osservato attraverso l’atmosfera nebbiosa di questo clima, ha un grande interesse, se una persona appena sbarcata e che ha fatto per la prima volta una passeggiata in un bosco di palme da cocco può giudicare qualcosa che non sia la propria felicità”.
E allora, pensi che se il suo libro fosse presentato in modo diverso non ci sarebbe neppure bisogno di costruire qualcosa di nuovo. Si immagina già dalle sue parole l’espressione che ha Darwin mentre passeggia tra le palme, l’importanza che ha per lui quel viaggio. Calcolo, ambizione… certo, ma è felice come una pasqua, guarda le cose con l’occhio del naturalista, ma è lì, in quel momento e in quel posto, e qualcosa canta dentro di lui.

Quando lo studi in modo tradizionale, lo immagini alle Galapagos. Il marinaio gli indica il fringuello: “guardi, mr Darwin. Guardi che bello!”
Ma Darwin sta già studiando il becco e pensa alla selezione naturale. E’ un marziano, Darwin. Non guarda, esamina, scruta. Non ha occhi, ha due microscopi.
Il Darwin dei testi non sorride. Riflette.
Per cinque anni.
E quando torna sa già tutto. Che poi a chi studia stanno sulle balle quelli che sanno già tutto.

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“E poi?”

Qualcuno ha deciso di definire ufficialmente l’uomo “sapiente” (sì, lo so: è stato Linneo), dal mio modo di vedere le cose, l’uomo dovrebbe chiamarsi “narrante”. Noi utilizziamo la narrazione come principale sistema cognitivo. Raccontiamo storie, ascoltiamo storie. Comunichiamo un’immagine romanzata di noi stessi, persino nell’introspezione ci raccontiamo un mucchio di storie. Non perché siamo falsi e bugiardi, ma perché siamo fatti così.

Siamo divoratori di storie.

Una delle persone più intelligenti che conosco mi parlava qualche settimana fa della poesia della matematica. E’ un concetto chiaro: è difficile appassionarci a un qualsiasi argomento senza guardarlo con gli occhi di un bambino che ascoltando una favola chiede “e poi?”

I migliori insegnanti sono narratori: conoscono e usano (perché li hanno studiati o fatti propri con la pratica) tutti i meccanismi della narrazione orale. Un attore straordinario come Marco Paolini riesce a tenerci incollati alla sedia raccontando vicende lunghe e complicate, come quelle di Ustica e del Vajont; ci raggiunge con una forza straordinaria perché ci racconta una storia, con tutti i trucchi del navigato attore di teatro. Trucchi sacrosanti, sia chiaro.

Nei documentari si utilizzano tecniche narrative. In alcuni compaiono persino gli archetipi del protagonista e dell’antagonista: servono a raccontare una storia. L’evoluzione si racconta attraverso la storia del pensiero scientifico: la scoperta è un viaggio, un’avventura. Sappiamo benissimo che è tutto romanzato, ma va bene così.

Nasciamo, cresciamo ed invecchiamo con la stessa domanda sulle labbra: “e poi?”.  Io trovo che sia bellissimo.

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