Fantasy, worldbuilding, lingue e società

Quando in ‟Luce e Ombra” ho creato elementi linguistici di un’antica civiltà in cui si adorava una divinità della luce o una delle tenebre in un apparente manicheismo portato all’estremo, sono partito dalle caratteristiche della società. La lingua, la scrittura anticipa al lettore come stanno davvero le cose e infatti la soluzione del mistero parte da una piccola avventura linguistica dentro a una più ritmata avventura fatta di spade, frecce, sotterranei, trappole e incantesimi.
Per ‟Il Rifugio del Signore del Mare” ho affrontato un’altra lingua, quella di una società isolana di astronomi, moralisti e cacciatori di streghe dall’indole estremamente meticolosa. Per cui la sua lingua ha nove tempi e un’infinità di modi verbali, tra cui l’imprecativo, l’assertivo, il dubitativo, il titillativo… È difficile fraintendere le intenzioni di chi parla. E d’altro canto, persino in una lingua così accurata, i modi di dire rispecchiano i pregiudizi della società, anche quelli più banali. Così, ad esempio ‟vendere biscotti”, attività mal vista per quel popolo, significa anche ‟tentare”, ‟indurre al male” e allude alla possessione diabolica.
La lingua è un modo di comunicare, certamente, ma le regole grammaticali, le parole, i suoni, le espressioni rispecchiano un insieme articolato di idee, abitudini, pregiudizi. Così uno scrittore fantasy deve immaginare nel suo worldbuilding un contesto intero per tirar fuori degli elementi linguistici da utilizzare.
Quando cambia il contesto, la lingua si evolve. Inevitabilmente. Piano piano, la maggior parte degli elementi anacronistici viene abbandonata o se ne perde il senso. La battaglia dei conservatori assomiglia a un muro di sabbia per contenere la marea. Inevitabilmente, in una società in evoluzione il linguaggio inclusivo prenderà piede.
[illustrazione di Morgana Marinucci per il Rifugio del Signore del Mare, Mari Aperti, 2020 – Senza Confine]

Hits: 28

Antropologia, pregiudizio e worldbuilding (parte prima)

APPUNTI DI LABORATORIO

Creando percorsi per il laboratorio di narrativa, nascono riflessioni sull’esperienza e la ricerca che ho accumulato nella scrittura e nell’editing. Così, invece di mettere questi pensieri in un cassetto, provo a trarne dei brevi appunti, molto specifici e molto particolari, sperando che possano essere utili a qualcuno.

Nella mia nuova ambientazione fantasy, ho lavorato molto sulle caratteristiche fisiche dei popoli in base alle loro origini nel tempo. La forma dei continenti assomiglia molto a quella dei nostri, pur con una diversa collocazione delle faglie, configurando quel mondo come ‟parallelo seppur diverso” e quindi mettendo una dose importante di ucronia nel worldbuilding. La storia delle popolazioni, invece, pur presentando diverse analogie (dinamiche simili ma in periodi e con risultati diversi), è molto differente. Per esempio, l’equivalente dell’Africa sub-sahariana è isolata da una fascia desertica più impervia della nostra e dei popoli che vivono lì non si sa nulla e non c’è stato alcun passaggio umano dall’equivalente della nostra Asia a quelle che da noi sono le Americhe alla fine del Pleistocene. I popoli si sono mescolati e rimescolati come da noi, fino all’Età del Bronzo (a cui segue un cataclisma che scompagina ogni similitudine), ma con una differenza fondamentale nella diffusione dei diversi colori della pelle.

Noi sappiamo che la pelle umana varia moltissimo, per via dei diversi geni coinvolti nella produzione e nella distribuzione della melanina, e che le nostre popolazioni hanno una capacità di adottare molto rapidamente (in termini antropologici) una specifica tonalità dominante tra quelle presenti nella loro variabilità. La pressione adattativa costruisce un equilibrio tra due fattori: la protezione dall’irradiamento solare tramite la melanina e la produzione di vitamina D, che ha bisogno di un passaggio di luce ultravioletta. L’origine da gruppi relativamente piccoli (ad esempio nel passaggio dall’Asia nelle Americhe) può limitare la variabilità genetica su cui la selezione naturale lavora. Altri fattori importanti, sia per la protezione che per la vitamina D, sono l’alimentazione e l’habitat, ma anche accorgimenti nel vestiario e abitudini di vita possono essere importanti su scala storica.

Su questa base, non è difficile disegnare qualcosa di diverso e prevedere delle dinamiche verosimili che diano ad un dato popolo letterario un colore di pelle specifico. Nel mio caso, ho considerato una minore escursione dell’ultravioletto per latitudine e ho dato a tutti una grande variabilità della pelle ma che va solo dall’equivalente del tipico mediorientale a quella dell’India orientale. Mentre i popoli dell’estremo nord, che corrispondono a latitudini scandinave, hanno un colore appena più chiaro.
L’esclusione degli estremi nostrani dal worldbuilding e la mancanza di un colore della pelle sensibilmente specifico popolo per popolo ha degli effetti interessanti nelle società. La percezione del simile e del dissimile su caratteristiche fisiche si basa moltissimo sul colore della pelle, sul nostro pianeta, per via delle notevoli differenze nella tonalità e per una questione storica: il razzismo che conosciamo nasce nel Seicento e risente molto della relativa uniformità e delle costruzioni culturali dei colonizzatori europei nel dare importanza al colore della pelle. Sappiamo bene che gli antichi Romani erano meno sensibili di noi su questo dettaglio, mentre davano più importanza al colore dei capelli. Gli scultori greci avevano canoni molto precisi sulla forma del cranio. Gli artisti etruschi sul taglio degli occhi. Insomma, il colore della pelle ha l’importanza che la tua specifica cultura le dà all’interno della variabilità presente.
Le discussioni sul colore e la forma dei capelli tendono a suggerire una pressione selettiva unicamente sociale, posto che i colori chiari sono da noi piuttosto recenti e che la loro diffusione è iniziata tra Asia ed Europa, peraltro ostacolata dalla dominanza genetica del colore scuro. Nell’antica Roma la tintura dei capelli era una pratica molto seguita, inizialmente con la cenere e in seguito con l’henné di provenienza egiziana: quando un colore di capelli diventa un segno distintivo di nobiltà o bellezza, dove non arriva la genetica ci pensa l’ingegno.
Nel mio worldbuilding, per i capelli ho optato per un castano-nero come modale, lasciando qualche raro individuo biondo e rosso in aree specifiche, che hanno caratteristiche genetiche particolari. I capelli chiari nelle mie terre civilizzate hanno un che di barbarico, e quindi non sono particolarmente apprezzati. È pratica comune, soprattutto tra gli uomini altolocati, tingersi di scuro i capelli, quando afflitti da una chioma particolarmente chiara o alla comparsa dei capelli bianchi, in tarda età.

Dato che il colore della pelle e i capelli non danno soddisfazione agli xenofobi, ho lasciato gli occhi come carattere ‟razziale”. Non tanto i colori, che nel mondo che ho disegnato sono generalmente chiari anche se polimorfici (verdi, ambra, grigi o castano chiari), da nord a sud e da oriente a occidente, ma per il taglio. Gli orientali del mio worldbuilding non solo hanno dominante il castano chiaro o ambra sul verde e grigio, elemento che da solo non basterebbe a connotarli, ma hanno gli occhi a mandorla e le ciglia corte e meno folte. In quelle terre, bisogna avvicinarsi parecchio a una persona e guardarla con attenzione, per dare sfogo al pregiudizio razziale.

Nel nostro mondo, gli occhi più recenti sono quelli azzurri e blu. Tra gli occhi chiari, hanno meno pigmenti di quelli grigi e verdi e sono dovuti a una sola mutazione di uno dei tre geni responsabili del colore dell’iride. Questa particolarità è intrigante quando bisogna costruire dei segni fisici di una qualche ascendenza.

(fine della prima parte)

Hits: 27