L’Evocatore

di Andrea Marinucci Foa e Manuela Leoni

Il Campo dell’Oscuro era piuttosto affollato, nonostante fosse ormai notte fonda. Tra tutti i quartieri di Vadhe, la preziosa e corrotta perla nera della Costa, il Campo era forse il più pittoresco e pericoloso. Vi dominavano infatti le botteghe di maghi, stregoni, incantatori e in generale degli operatori dell’occulto. I quattro energumeni che avevano attraversato spavaldamente piazza degli Astrologi e avevano imboccato la stretta via degli Inferi entrarono uno dietro l’altro in un portone verde, pochi passi più avanti.

Se anticamente gli astrologi avevano le botteghe sull’omonima piazza e gli evocatori le loro tane terrificanti su via degli Inferi, il continuo ricambio aveva mischiato gli operatori dell’occulto e la toponomastica non era più molto d’aiuto. Per un caso fortuito, la bottega in cui erano entrati i quattro apparteneva effettivamente a un evocatore, anzi a un maestro evocatore.

Costui era un vecchio alto ed emaciato, dalla lunga barba bianca, che sedeva alla sua scrivania leggendo un grande tomo alla luce fatata di una piccola salamandra accoccolata sulla sua spalla. Non indossava gli abiti sgargianti dei soliti stregoni vadhiani, ma una semplice tunica nera.

I quattro uomini, esitarono. Il primo si tirò giù il cappuccio che ne metteva in ombra il viso e tossì per richiamare l’attenzione dell’evocatore.

«Maestro, Ahervas?»

Il vecchio alzò una mano, senza distogliere lo sguardo dal libro.

«Ma guarda tu che…» iniziò uno degli uomini, interrompendosi quando il capo gli pestò il piede, facendogli cenno di tacere.

Terminata con calma la lettura della pagina, l’evocatore chiuse il libro e alzò lo sguardo verso il quartetto. «Tu sei l’erede di Laban l’Incapace o sbaglio?»

L’uomo si fece avanti. «Proprio così, anche se forse quel soprannome…»

«A me sembra appropriato», commentò il vecchio in tono asciutto. «A Vadhe si parla molto della vendetta della vostra gilda nei confronti dei Tre. Le scommesse in merito si raccolgono da settimane. E ora eccovi qui, in cerca dell’aiuto del miglior evocatore della Costa.»

Laban, il capo della più potente gilda dei ladri di Vadhe era morto in un incidente qualche mese prima, trapassato con i suoi sgherri più fidati dalle spade di tre ladri indipendenti. La successione, lunga e sanguinosa, era terminata da poco e una delle prime decisioni del nuovo capo era stata quella di ristabilire il buon nome dell’organizzazione eliminando gli assassini di Leban.

«Mi chiamo Spring», annunciò l’uomo, battendosi il petto con un pugno.

«Un nome vale l’altro», sentenziò il vecchio. «Vedo che avete scelto di liberarvi dei Tre con la magia, quindi passiamo subito agli affari: cento barre d’oro e metodo a mia discrezione oppure trecento e metodo a vostra scelta.»

«Trecento?» Uno degli uomini di Spring si tolse il cappuccio. Aveva il viso rosso e gli occhi strabuzzati. «Un prezzo folle!»

«Possiamo permettercelo», garantì il capo.

Il vecchio unì le mani e annuì compiaciuto. «Allora, che demoni vorreste scatenargli contro? Quando, come e dove?»

Spring si lisciò la corta barba castana con espressione pensierosa. «Qualcosa che faccia tremare l’intera Vadhe. Voglio che abbiano una sorte così orrenda che sia d’esempio per tutti gli impertinenti che sfuggono al nostro controllo.»

«Servono i dettagli, mastro Spring. La stregoneria si regge sui dettagli.»

«Tre demoni del fuoco, uno per ciascuno, che li inceneriscano in pieno giorno di fronte alla folla e che radano al suolo il loro dannato covo.»

«I demoni del fuoco sono esseri davvero formidabili», convenne Ahervas. «Ma in una città come Vadhe…»

«Non mi interessa cosa può succedere alla città, stregone». Spring mostrava sul viso i segni dell’esaltazione.

«Come vuoi tu», concesse l’evocatore. «Tuttavia è meglio che ti avverta: il successo non è garantito. Evocherò le creature richieste quando avrai versato in anticipo metà della somma che abbiamo convenuto, se i miei demoni dovessero avere successo verserai il resto entro il tramonto del giorno stesso, oppure riceverai anche tu visite infernali. Se dovessero fallire nell’eseguire il tuo piano, non verserai il resto, ma io terrò l’anticipo.»

Spring tese la mano, ma Ahervas la ignorò. Dopo un istante d’imbarazzo, il ladro annuì. «Siamo d’accordo. Avrai il tuo oro domani mattina.»

«E adesso, esimi e rapaci signori, lasciatemi tornare al mio libro.»

Il grande salone sembrava un campo di battaglia. I quattro si muovevano su un tappeto di segatura, strappando e smontando con approssimazione il vecchio arredo. Il più corpulento aveva il viso rubicondo, il naso a patata e una barba ben curata. Stava trasportando da solo una trave enorme senza dare segni di fatica. Si voltò verso l’ometto da capelli bianchi che cercava di strappare via dei chiodi con una tenaglia arrugginita.

«Ehi, Morlon! Dove la metto questa?»

«Dove ti pare, Brik», borbottò. «Dannazione, è più facile sbudellare un drago con un cucchiaio da dessert che togliere questi dannati chiodi!»

«Lasciali, ci penso io quando torno», si offrì il colosso, quindi si incamminò verso la porta.

«Abbiamo fatto proprio bene a salvarlo dalle grinfie di Laban, no?» commentò la giovane dai capelli neri e gli occhi blu come il mare. Indossava un’ampia camicia bianca e sedeva sul bancone con un pennello in mano.

«Attenta a quella roba, Llana», intervenne il quarto, un uomo dai capelli corvini che indossava un elegante giustacuore nero e argento. «È un solvente molto velenoso.»

«Per le dorate balle di Orlo, Bran! Smettila di farci da mamma e datti da fare un po’ anche tu!»

Quel locale, una vecchia osteria con locanda al piano superiore, era stato regolarmente acquistato da Bran, Llana e Morlon con il bottino della loro ultima avventura, ma sarebbe servita ancora molta fatica prima di renderlo di nuovo agibile. Sarebbe diventato un’ottima base per le loro prossime avventure, a un isolato dal porto e appena fuori dalla zona più affollata della città.

Bran si stava togliendo il giustacuore, quando nel salone si udì l’urlo d’allarme di Brik.

«Lo sapevo, si è fatto male con quella trave», brontolò Morlon, avviandosi verso l’uscita.

Ma le urla dell’omone non si placavano. Llana e Bran si affrettarono dietro il compagno e i Tre si trovarono di fronte a un grande falò che ruggiva a pochi passi dalla locanda. Era alto almeno sei piedi e largo il doppio.

Llana si voltò verso Brik. «Che diavolo…»

«Non è un fuoco naturale», li avvertì Bran.

«Puoi spegnerlo?» domandò Morlon, portando la mano alla spalla destra. Ma lo spadone che portava abitualmente a tracolla era appoggiato in un angolo della locanda.

«Posso provare a sputarci sopra, se vuoi», rispose l’amico. «Se viene verso la locanda siamo fritti.»

«Letteralmente», aggiunse Llana. «Bran, che facciamo?»

Il giovane in nero si strinse nelle spalle.

«Bran!»

«Un momento! D’accordo, al tre corriamo verso il porto. Se riusciamo a passare indenni di lato, abbiamo una possibilità. Uno…»

«Tre!» Urlò Morlon spingendoli sulla destra e correndogli appresso non appena si furono lanciati oltre le fiamme. L’ometto si voltò dopo alcuni passi ma quello che vide lo spinse ad accelerare la corsa. Il fuoco si era scisso in tre grandi tizzoni dall’aspetto vagamente umano che si erano già mossi per inseguirli.

Evitando la folla che scappava da ogni parte, i tre raggiunsero il largo spiazzo di fronte all’oceano.

«In mare?» chiese Bran.

«Già, così si mettono ad arrostire tutta la città», sbuffò Llana, sguainando lo stiletto.

«Assicurati che non cambino strada e fatti inseguire nella nostra direzione», disse Morlon. «Ho avuto un’idea. Llana, con me!»

I due si lanciarono di corsa sulla destra, verso i moli e i vascelli ormeggiati, seguiti a breve distanza da Bran, che cercava di mantenere costante la distanza dai tre demoni del fuoco. Sentiva sulla schiena il calore aumentare e dei piccoli focolai si stavano accendendo sui mucchi di immondizia abbandonati sul selciato. Il giovane lanciò un’imprecazione.

Improvvisamente Llana e Morlon sbucarono dal fianco. Tenevano una robusta gomena tesa tra loro e si erano disposti per prendere in mezzo i tre inseguitori. Urlando si gettarono in mare, trascinando i demoni nelle sporche acque del porto.

Riemersero pochi istanti dopo, fissando il tratto che li separava. L’unica traccia dei loro avversari era un filo di vapore che si alzava dall’acqua.

«Tutto a posto?» chiese Llana.

«Più o meno», sospirò Bran. Aveva i vestiti bruciacchiati. «Voglio una lunga vacanza sui monti. Tra la neve.»

Morlon si issò sulla banchina, e restò a sedere con i piedi a mollo. «Che diavolo erano?»

«Il risultato di una evocazione. Qualcuno ci vuole sottoterra.»

«Tanto per cambiare!» commentò allegramente Llana. «Va bene, tanto la camicia era già da lavare.»

«Non è finita», sbuffò Bran. A qualche passo da loro si stava accendendo un nuovo fuoco.

«Possono guardarci con un incantesimo?» domandò Morlon.

L’amico scosse la testa. «No, qui al porto per ragioni di sicurezza ci sono controincantesimi per evitare che qualcuno usi la chiaroveggenza o degli incanti del genere per spiare le navi del duca.»

«Allora il nostro fan è qui intorno e ci sta guardando con i suoi occhi fetidi e stregoneschi», concluse Llana, giocherellando con lo stiletto.

«Lassù.» Morlon indicò la terrazza dell’edificio di fronte a loro. La testa che si sporgeva scomparve improvvisamente e il fuoco che stava crescendo rapidamente si spense di colpo.

«Lo inseguiamo?»

«Ormai sarà andato», sospirò Llana.

La città parlò dei fuochi demoniaci per qualche giorno, quindi tornò a occuparsi delle solite vicende. Non era la prima volta che i Tre creavano agitazione a Vadhe, ma questo forniva qualche preziosa distrazione alla solita routine cittadina e in fondo i vadhiani non disprezzavano quei rari diversivi. Il nuovo capo della gilda, Spring, venne trovato la sera successiva al Mattino dei Fuochi con la gola tagliata, mentre della bottega di Ahervas non si seppe più nulla. Il giorno prima era lì, il giorno dopo al suo posto c’era solo la parete dell’edificio d’angolo di via degli Inferi.

© 2016 by Andrea Marinucci Foa & Manuela Leoni

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