L’Abate Breuil e il Racconto della Scoperta

1986.
Grotta Breuil è un piccolo anfratto nel Monte Circeo. Oggi è raggiungibile solo dal mare, ma quando vissero i suoi abitanti, dai 27 ai 35 millenni fa era accessibile anche da terra, come suggeriscono le ossa che sono state ritrovate, testimonianze di caccia oltre che di pesca.
Un gruppo ben nutrito di ricercatori esamina ossa e pietre su un grande tavolo di legno, subito fuori dalla grotta. In costume e maglietta. E’ estate, il momento ideale per le spedizioni di ricerca e non solo per via del bel tempo ma anche perché gli altri mesi sono impegnati dalla vita universitaria.
Un gommone e una barchetta a motore sono ormeggiati a qualche metro di distanza dalla grotta. Nella stagione successiva verranno trovati importanti reperti, un frammento del cranio e due denti tipicamente neandertaliani. Ma non nel 1986.
Ogni osso animale, ogni selce lavorata è un frammento importante di un grande puzzle che racconta la storia di uno degli ultimi gruppi di Neanderthal, vissuti lì in un periodo relativamente temperato tra due fasi intense della glaciazione di Würm, quando il clima non era tanto diverso dal nostro e quando i Sapiens abitavano già la penisola. Così il lavoro ripetitivo di quei ricercatori in costume da bagno che selezionano frammenti su un tavolo sotto il cielo estivo, con delle vaschette di plastica e tanta buona volontà, è emozionante come l’avventura di Indiana Jones in una piramide perduta.
Qualcuno degli studenti intenti a selezionare sassi e fossili ricorderà quelle settimane come una vacanza di studio: sorriderà al pensiero degli scherzi in barca, delle serate passate insieme, di sole, mare e ragazze. Ma gli resterà impresso anche il brivido dell’avventura, solo per aver avuto in mano i pezzi di quel puzzle.

1901.
Breuil, Henri Breuil. Aveva 24 anni ed era stato ordinato sacerdote soltanto l’anno precedente. Era un gesuita, ovviamente, e un entusiasta studioso della preistoria. Evidentemente in quei tempi e in Francia un ventiquattrenne poteva avere delle occasioni, poiché gli furono affidate due grotte appena scoperte in Dordogna, Les Combarelles e Font-de-Gaume. L’esplorazione in queste grotte lo catapultò, e in veste illustrissima, nella storia della scoperta dell’arte rupestre, uno degli eventi più romanzati della scienza. E ne fece un vero e proprio principe della preistoria, l’Abate Breuil.
Quello che io chiamo “il romanzo della scoperta dell’arte rupestre” comincia in una grotta… Ma forse è meglio che ve la racconti con le parole della professoressa Isabelle Lemaine, personaggio dell’universo di Jacques Korrigan che i lettori incontreranno nel prossimo romanzo.

“La prima scoperta dell’arte preistorica del magdaleniano venne fatta in Spagna, ad Altamira. Fu una scoperta sensazionale, che lanciò Breuil e ne fece il principe dello studio della preistoria europea. Ma fu, per così dire, una bomba a scoppio ritardato. La scoperta della grotta avvenne nel 1868, nel terreno di Marcelino Sanz de Sautuola, un nobile spagnolo. La cavità non venne esplorata subito e venne chiusa per evitare che qualcuno vi si facesse male. La storia vuole che il buon Marcelino iniziasse l’esplorazione della grotta dopo un viaggio a Parigi, quando visitò l’Exposition Universelle del 1878 dove venivano mostrati i ritrovamenti preistorici di Lartet e di altri. Ottenute adeguate istruzioni da Piette, il successore del grande Lartet, il nostro Marcelino si mise a caccia di reperti nella sua grotta, con lo spirito, la tenacia e l’ardore dell’archeologo dilettante. Venne ricompensato dei suoi sforzi con il ritrovamento di strumenti di pietra, che vennero portati a Madrid dal più grande preistorico spagnolo, Vilanova. Ma per la scoperta più sensazionale doveva scendere in campo un altro personaggio: sua figlia Maria, che allora aveva nove anni, che grazie al suo fisico minuto riusciva a muoversi nella cavità senza fatica. Fu Maria a notare delle macchie di colore e con un’illuminazione adeguata i due spagnoli, padre e figlia, ammirarono, ammutoliti dallo stupore, poderose figure di bisonti policromi e scene di caccia. Non si trattava di disegni approssimativi, quelle incisioni schematiche che ci si sarebbe potuti aspettare dall’uomo delle caverne, ma di opere straordinariamente espressive, dietro cui c’era la mano di un grandissimo artista.”

Il professor Vilanova visitò la grotta, ma fu sempre titubante.

“Alla fine, Vilanova si convinse e promise il suo appoggio scientifico a Marcelino de Sautuola. Molte persone visitarono la grotta e la piccola Maria divenne una sorta di eroina nazionale, la scopritrice di un grande tesoro della preistoria spagnola. Qualche mese più tardi Marcelino si recò al congresso paleontologico di Lisbona con Vilanova. Lì erano riuniti i più grandi paleontologi: il tedesco Virchow, Cartailhac di Tolosa, l’inglese Lubbock, e molti altri. Nessuno di loro credette all’antichità di quei dipinti, e la difesa di Vilanova si fece sempre più debole, finché cessò del tutto quando Marcelino fu accusato di un falso deliberato. Infatti venne fuori che il nobile spagnolo aveva ospitato a lungo nel suo castello un bravo pittore. Si trattava di Paul Ratier, un sordomuto di Lorient. Nonostante le sue insistenze, fu eretto un muro intorno al nobile spagnolo e nessuno osò più parlare di Altamira per molti anni. Marcelino de Sautuola morì prima che il suo nome potesse essere riabilitato.”

Quanto al pittore…

“Ratier, trascinato suo malgrado nella polemica, aiutò don Marcelino: guardò i dipinti di Altamira con l’occhio del pittore. Affermò con sicurezza che questi descrivevano un mondo che non esisteva più, che nessun artista contemporaneo avrebbe potuto rappresentare con tanta cura degli animali estinti da millenni, quindi li riprodusse fedelmente per un libro sulla grotta. Quel libro – pieno delle strabilianti riproduzioni di Ratier delle ancora più strabilianti opere di uno sconosciuto artista di tanti millenni prima – venne pubblicato, ma poiché c’era il sospetto di una frode scientifica, non ebbe il successo sperato. Al nobile spagnolo fu impedito di presentarlo di persona ai grandi della paleontologia, e la grotta di Altamira finì chiusa da una porta. E potrebbe essere ancora chiusa a chiave, se non fossero state scoperte altre grotte dipinte, in Francia.”

Ed è a questo punto che compare il nostro Breuil, sacerdote naturalista ventiquattrenne che bussò alla porta di Cartailhac. Breuil desiderava ardentemente partecipare alle ricerche preistoriche nelle caverne francesi e il paleontologo capitolò di fronte a tanto entusiasmo.

“Quindi Cartailhac portò Breuil come suo allievo a Les Eyzies e gli affidò le ricerche in due nuove grotte appena scoperte: Font-de-Gaume e Les Combarelles. Queste erano piene di terra e ghiaia e il giovane prete constatò immediatamente che non potevano essere state inquinate dall’attività umana, almeno non di recente. Dopo lo sgombero dei detriti, in entrambe le grotte rinvenne strumenti di pietra e dipinti rupestri. I dipinti, in giallo, nero, rosso e bruno, raffiguravano animali dell’epoca madgdaleniana ed erano vere e proprie opere d’arte. Breuil fece centro al primo colpo. Entusiasta, condusse Cartailhac a esaminare i dipinti: mammut, orsi, cavalli, bisonti… Il professore li guardò con grande meraviglia, quindi prese quasi di peso il giovane scopritore e lo condusse ad Altamira. Maria de Sautuola era lì, quando i due francesi bussarono alla sua porta per chiederle il permesso di visitare la grotta della sua infanzia. Erano passati due decenni dalla scoperta, ma la nobile spagnola sapeva che prima o poi qualcuno si sarebbe fatto vivo. Professore ed allievo guardarono i dipinti in un silenzio colmo di meraviglia, quindi Cartailhac si rivolse a Maria e le disse che avrebbe dichiarato in pubblico il suo clamoroso errore, riabilitando la memoria di don Marcelino e i suoi meriti scientifici.”

Un buon romanzo ha bisogno di un buon epilogo.

“Ma Maria aveva ben altre sorprese per i due antropologi. Secondo questa storia, fornì a Breuil e al suo mentore l’elenco delle caverne dipinte della Spagna. Così, i tre – una nobile spagnola, un antropologo di mezza età e un giovane prete – consegnarono alla scienza un capitolo importantissimo della storia dell’uomo e soprattutto della storia dell’arte.”

Una bella storia, non trovate? Quanto c’è di vero? Pur scavando un pochino ed eliminando dalle diverse fonti qualche palese incongruenza, resta pura narrativa. In una delle fonti la piccola Maria aveva 5 anni. Altrove il pittore era uno spagnolo del meridione e la storia finiva con un suo monologo (essendo Ratier sordomuto, la cosa sembra improbabile). Ho corretto qui e là, ma non ce l’ho fatta a smontare il Romanzo della Scoperta, forse perché non sono uno storico ma uno scrittore.

1938.
Impegnato nelle ricerche storiche per Jacques Korrigan, mi imbatto ancora in Breuil.
Era il 1938 e Breuil aveva 62 anni, quando incontrò a Parigi un giovane ricercatore olandese, Assien Bohmers, il cui nome si sarebbe legato al gruppo Ahnenerbe di Himmler e alla costruzione del mito ariano dei nazisti. Bohmers aveva 26 anni ed era un brillante paleontologo reduce dalla ricerca di Mauern in Germania. Girava l’Europa, cercando di battere sul tempo la guerra (temeva sarebbe scoppiata a breve), per esaminare le collezioni antropologiche e soprattutto per mettere alla prova le sue idee balzane sugli ariani. Si può solo supporre cosa si dissero il gesuita e il nazista in erba, ma è difficile fermare l’immaginazione. Romanzando un po’ la storia, è facile immaginare che Breuil vide un riflesso del suo passato nell’entusiasmo e nella giovane età del suo interlocutore e che, identificandosi con lui, gli concesse di visitare Les Trois Freres, che veniva aperta a pochissimi visitatori, l’ultima grotta del viaggio di Bohmers e la più importante.
Les Trois Freres aveva colpito Breuil in modo particolare. La figura nota come “lo Sciamano” era per l’Abate della Preistoria la testimonianza della spiritualità insita nell’uomo fin dagli albori della sua specie.
Romanzando e ancora romanzando, cosa passò tra Breuil e Bohmers che trasformò la ricerca del nazista in un pellegrinaggio mistico nella vita spirituale dei primi ariani? Se Breuil era convinto che alcune figure dell’arte rupestre rappresentassero un vero e proprio culto paleolitico e se il gesuita passò la sua visione al giovane nazista, probabilmente “lo Sciamano” di Les Trois Freres fu davvero per Bohmers la testimonianza che si trovava nel santuario degli antenati. Una visione spirituale di un saggio uomo di scienza e fede, prestata ad un fanatico, produce strani effetti.
Sciamani, magia, nazisti, antiche grotte e la guerra che incombe. La tensione narrativa è straordinaria solo passando in rassegna gli elementi. L’immaginazione corre veloce.

Oggi.
Breuil morì il 14 agosto del 1961, per cui oggi – la vigilia di ferragosto di 53 anni più tardi – è un buon giorno per scrivere di lui. O almeno è un giorno significativo. Breuil fu uno dei grandi della preistoria. Per la storia della scienza è un Achille o un Alessandro Magno. Questo è il senso di questo articolo, o saggio, o racconto. Fate un po’ voi. Lo avete seguito come un filo di pensieri, che ci porta da una grotta chiamata con il nome di Breuil ad Altamira e a un Bohmers ripreso dalla narrativa fantastica senza un apparente senso logico.
Con Breuil, ho parlato della rielaborazione narrativa della scoperta. Negli ultimi quindici anni, la storia della scienza ha esaminato buona parte del materiale storico tradizionale e ha faticato non poco per portare alla luce gli elementi veri in mezzo al romanzo della scoperta. Pensatori come Stephen Jay Gould attribuiscono la narrazione eroica della scoperta (e delle diatribe tra scienziati) al bisogno di avere dei modelli eroici e di interpretare la ricerca come un viaggio verso la verità. Un’interpretazione molto interessante e convincente, anche se leggermente troppo psicanalitica. In realtà romanziamo tutto, non soltanto la scoperta. A distanza di qualche anno anche una lite per un parcheggio assume spesso uno schema narrativo epico e non voglio pensare che gli automobilisti abbiano un bisogno tribale di eroi o che guardino al parcheggio come alla ricerca del proprio senso nella storia. Personalmente integrerei le felici intuizioni degli storici della scienza con una spiegazione più semplice e generale, antropologica più che psicologica.
Ogni attività che muove la nostra immaginazione viene romanzata per acquistare una forma narrativa. Questa è la comunicazione “giusta”, quella che è socialmente e culturalmente attesa e che provoca nell’ascoltatore una certa emozione, senza cui non sarebbe possibile alcuna empatia o identificazione con l’autore. In sostanza, la funzione della comunicazione è quella di rendere l’interlocutore partecipe dell’emozione.
Ritornando alla scienza, l’uso del romanzo della scoperta è facile da comprendere: quando è difficile realizzare la portata dei contenuti, si utilizza l’emozione come parametro di valutazione. La scoperta di un frammento d’osso grande quanto un chicco d’uva passa viene narrato come la scoperta del Santo Graal. Per il ricercatore l’emozione è quella, per il pubblico un pezzo d’osso grande quanto un chicco d’uva passa è un pezzo d’osso grande quanto un chicco d’uva passa. L’unica chiave per comprendere la scoperta è immedesimarsi con il ricercatore, entrare nei suoi panni. Senza empatia il senso della scienza si perde.
Nell’estate del 1986 avevo 21 anni ed ero uno di quegli studenti che setacciavano ossa e sassi sul grande tavolo fuori da grotta Breuil. Non riuscirei a capire il bisogno di romanzare la scoperta se non avessi vissuto esperienze come quella, dove qualche giorno a dividere sassi e ossa è stato emozionante quanto sedere alla tavola rotonda di re Artù.

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