Ade-lirio

Ade-lirio
di Andrea Marinucci Foa

“Hey, baby”, le dissi. “Sei un dolce peso, ma non stringermi così il collo.”
Portarla oltre la soglia era molto tradizionale. Molto stupido. Molto intrigante, viste le sue curve. Non che fossero un mistero per me, ma sotto certi aspetti sono un tipo vulcanico e mi scaldo ogni volta che mi avvicino a lei.
“Ma cosa…” La posai delicatamente a terra. “Checosadiavoloè?”
“Tappeti, adone mio.” Liquidò la questione alzando le spalle.
“Tappeti? Ma…”
“Biscottino mio, ho fatto qualche piccolo aggiustamento mentre eri impegnato in quella barbosa festa di addio al celibato”, rise argentina. Mi si accapponò la pelle.
“Nonmichiamarebiscottino!” I tappeti mi avevano turbato, ma la questione dei piccoli aggiustamenti mi stava spaventando a morte.
Mi diressi verso la stanza da letto respirando a malapena.
“Ahhhhhhhhhhhhhh!” Urlai, appena posai lo sguardo sul letto nunziale a forma di cigno. Corsi all’armadio e aprii le ante. “Noooo! Dov’è la mia collezione di teschi persiani?” Mi misi a cercare lì intorno, chiamandoli uno ad uno con le lacrime agli occhi. “Dario? Artaserse?”
“Li ho buttati via. Non erano buoni neppure per fare il brodo!”
“Lamiastratocaster?”
“L’ho messa in garage, mio caro”. Persefone sollevo il sopracciglio, seccata. “Dovresti essere interessato ad altre cose in questo momento. O no?”
“Sì, certo. Un momento… Quali altri aggiustamenti hai…?”
Lei sorrise. Il suo sorriso radioso mi avrebbe sedotto in un lampo, se non fossi stato terrorizzato. “Adesso abbiamo un ascensore. Non sei contento?”
“Che ci facciamo con un ascensore?”
“Oh, non fare l’orso, vieni a vedere!” Mi trascinò in salotto. Il caminetto era andato. Sostituito da un divano napoleonico. Le mie adorate librerie erano ancora lì, ma adesso i libri erano oscurati da un mare di cianfrusaglie d’argento e di cristallo.
Al posto del tavolo da pingpong c’era un ascensore!
Persefone battè le mani e la porta si aprì. Dietro c’era Caronte. Portava una divisa da portiere d’albergo, piena di lustrini e con un cappello sulle ventitrè. La mia sposa mi trascinò entusiasta nell’odioso trabiccolo.
“Che piano signora?” Chiese Caronte, strascicando servilmente la voce.
“Al primo girone”, ordinò lei.
“Non avrai mica…?”
“Oh, sì. Sono bravissima ad arredare”, mi rassicurò. “Potrai ringraziarmi più avanti, in camera da letto.”
I miei timori erano giustificati. Il primo girone era diventato un prato fiorito. Le farfalle variopinte svolazzavano dappertutto e leggiadre ninfe suonavano cetre e flauti. Achille, Ettore, Diomede, Ulisse e gli altri eroi stavano giocando a pallavolo, invece di continuare le eterne battaglie nel profondo Averno. Mi veniva da piangere.
“Cerbero!” Gridai, sperando irrazionalmente che il mio mostro guardiano potesse sistemare le cose. Mi venne incontro un barboncino candido come la neve.
“Cerbero! Che brutto nome, sei proprio un disastro. Adesso si chiama Dudù.”
“No! No! No! Dudù noooooooooooooo!”
Mi svegliai tremante. Accesi la luce. Persefone dormiva accanto a me, con il lenzuolo che copriva appena il seno perfetto. Guardai estasiato il mio letto di legno di pino. Scesi ed aprii l’armadio. Accarezzai i miei teschi persiani uno ad uno, con lacrime di sollievo. Stavo per imbracciare la chitarra, quando Persy si svegliò.
“Torna a letto!”
“Adesso vengo, cara.”
“Ah, a proposito, ha telefonato mammina. Domani siamo a cena da lei. Sai com’è, la festa di primavera… Tanto ce la sbrighiamo presto: una o due stagioni…”
“No… no…” Deglutii, guardando l’angelica strega che avevo sposato. “Non me la perderei per niente al mondo, la festa.”

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