Il libro modale

Uno dei fenomeni più irritanti sul piano artistico e che portano più discussioni e interesse sul web è l’ottimizzazione della scrittura, tesa ad ottenere non opere ma prodotti “modali”. Da altre discipline sappiamo benissimo che le fasi storiche di ottimizzazione compulsiva accompagnano momenti carenti nella creatività. Grazie agli studi di S. J. Gould e N. Eldredge, abbiamo imparato che la storia delle specie conosce spesso la fase della diffusione rapida di varianti seguita da una fase più lunga in cui le variazioni si affinano e si diffondono fino a costituire una nuova base di partenza. Nei fenomeni sociali l’ottimizzazione corrisponde perfettamente a questa seconda fase biologica, in cui tutto sembra muoversi al rallentatore e in cui si stabiliscono canoni ottimali che verranno allegramente buttati alle ortiche con la prossima ondata creativa. Mi sembra che siamo proprio nel mezzo di una fase di questo genere, col tentativo di uniformare il prodotto letterario e renderlo “modale”, scientificamente studiato per garantire una buona diffusione su un pubblico che è al centro di una curva gaussiana di risposta alla costruzione della trama, al linguaggio e al ritmo.

D’altra parte, si sa, le variazioni esplodono ai margini, in periferia, e vengono incorporate nella popolazione futura solo quando hanno un impatto adattativo notevole. Nel mondo dei libri l’adattamento consiste non tanto nell’adesione ai canoni di gradimento dei lettori, ma all’eco socioculturale di un’opera, di una tematica, di una modalità narrativa. La lavorazione del prodotto editoriale modale è quasi un fenomeno post-industriale: esistono schemi ottimali per la produzione distribuita di best seller, regole che massimizzano l’efficienza della trama e del linguaggio per raggiungere il target modale. Purtroppo l’ottimizzazione è un fenomeno che chiude più porte di quante ne apra, perché l’efficienza non è quella di ampliare gli orizzonti e portare fermento in ambito socioculturale ma quella di garantire un buon numero di vendite ai singoli “prodotti”. Si scrive modali ma si legge mediocri, perché sono sottratti al lato artistico, che crea bellezza dalla piccola imperfezione, che fa musica con uno strumento non perfettamente accordato, che spesso sbaglia ma sbagliando ci porta a guardare orizzonti che non avevamo mai preso in considerazione.

Così lo studio di Propp che evidenzia un flusso tipico nell’elaborazione della trama da spunto importantissimo per costruire opere consapevoli diventa una banale ricetta per confezionare una favola di successo. L’evoluzione del linguaggio narrativo, che segue necessariamente gli strumenti cinematografici e televisivi, porta al mero elenco delle tecniche obsolete (infodump, descrizione statica, etc.) e degli ingredienti essenziali (come gli incipit dal ritmo incalzante da trailer cinematografico), invece di stimolare riflessioni costruttive su come le variazioni di ritmo e linguaggio intervengono nell’immaginazione del lettore e nella percezione della storia.

E’ ormai diffuso un marketing che scientificamente spinge della deriva artistica, una sorta di “si-fa-cosismo” tipico delle fasi meno interessanti della storia. E’ facile profetizzare che l’appiattimento ottimale porterà a una contrazione del numero di lettori, così come l’ottimizzazione dei telefilm ha portato a una riduzione generalizzata nel pubblico. In fondo, i segmenti di arco non modali della curva dei lettori costituiscono un elemento dinamico e non statico. Una nicchia si può trasformare in un fiume in piena, perché le attività umane non hanno il ritmo di eventi biologici calcolati in generazioni. Anche solo restando in tempi relativamente recenti, è successo con Harry Potter, un fenomeno di nicchia che è straripato ben prima di approdare al cinema, e su cui solo qualche piccolo editore ha scommesso inizialmente.

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